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Sanremo: De Giovanni attacca Geolier: ‘napoletano scorretto’

Licenza di trapper a Sanremo? Il testo della canzone di Geolier, ‘I p’ me, tu p’ te’, scatena le critiche dei puristi della lingua napoletana e di scrittori come Maurizio De Giovanni, il primo a lanciare la polemica, ed Angelo Forgione, infiammando i social. “È una lingua antica e bellissima, con la quale sono stati scritti capolavori immensi. È un patrimonio comune, ha un suono meraviglioso, unisce il maschile e il femminile come fa l’amore. Non merita questo strazio. PS. Basta chiamare qualcuno e farsi aiutare. Un po’ di umiltà”, scrive l’autore dei Bastardi di Pizzofalcone che rimanda alla scrittura dei testi di Pino Daniele sottolineando: “Non c’è alcun giudizio sull’artista, il suo valore musicale e il suo successo che per altro gli auguro con tutto il cuore”. Nota Forgione: “Vocali sparite, totale assenza di raddoppio fonosintattico delle consonanti, segni di elisione inesistenti, o inventati dove non ci vogliono (vedi il titolo). Una lingua perfetta per il rap e non solo, ma il Napoletano, non questo scempio. E chi non prova imbarazzo è complice dell’offesa dell’alta dignità dell’unico sistema linguistico locale d’Italia di respiro internazionale, proiettato sull’orizzonte artistico globale proprio attraverso la Canzone”. Una critica che gli fa specificare: “il post non attacca Geolier né la sua canzone (inedita) ma analizza una questione linguistica”. Intanto mentre il suo rione Gescal affigge stendardi di sostegno, i neoborbonici inviano a Geolier il testo corretto del brano invitandolo ad un corso di lingua, ma notando che è comunque “significativo e importante ritornare a cantare in lingua napoletana a Sanremo e diffondere la nostra lingua tra i giovani”. “I p’ me, tu p’ te”, definita ‘canzone uptempo, con cassa dritta’, parla di una coppia che si ama troppo ma capisce che è arrivato il momento di riprendersi i propri spazi perché amare vuol dire anche accettare la fine di una storia, nel rispetto dell’altro. “Un testo bellissimo” dice Barbara D’Urso nel suo ‘tutorial’ social con traduzione in italiano.

Maurizio de Giovanni, ‘mi chiamano zecca, basta ai convegni’

Lo scrittore napoletano Maurizio de Giovanni, il padre del commissario Ricciardi e dei Bastardi di Pizzofalcone, non parteciperà più a convegni o presentazioni di libri. Lo annuncia lui stesso sui social, dopo aver appreso di essere “definito in molti odiosi modi: presenzialista, tuttologo, perfino zecca”, scrive. De Giovanni spiega nel suo post di avere “una patologia, contratta da quando le mie cose hanno cominciato a raggiungere un pubblico oggettivamente più ampio del condominio in cui vivo. Questa patologia è il timore che qualcuno, chiunque, possa pensare: ecco, adesso che è diventato (o si sente, o gli fanno credere di essere, o immagina di essere) noto, non si presta più a dare una mano agli altri. Questo mi ha portato negli anni a un enorme aggravio di fatica. Presentare libri che devo necessariamente leggere, fare recensioni, quarte di copertina, fascette, articoli di giornale; ma anche intervenire a convegni, tavole rotonde, trasmissioni televisive, a scrivere racconti per antologie, a commentare film o fiction. Questo, lo spiego nonostante sia chiaro, non mi porta alcun vantaggio”, nessun “valore aggiunto”. Ma, continua de Giovanni, “una patologia è una patologia, quindi ho continuato a dire di sì”. “Scopro adesso – afferma lo scrittore – di essere definito in molti odiosi modi: presenzialista, tuttologo, prezzemolo, perfino ‘zecca’ (mi sfugge il riferimento all’animale, ma anche all’ente che batte moneta); e addirittura, il che è piuttosto comico, di non avere ‘amore e gratitudine per il territorio’. Io. Andando a vedere le mie presenze, scopro che sono meno del dieci per cento per il mio lavoro, e per il novanta riferibili alla suddetta patologia”. Ma ora, i “graziosi epiteti” che gli sono stati rivolti, lo hanno “definitivamente convinto. Non posso continuare così, e tutto sommato nemmeno è giusto che lo faccia. Ragion per cui – conclude de Giovanni – a partire da oggi, con esclusione degli impegni già assunti che cercherò di mantenere e delle occasioni di carattere sociale e di beneficenza che non si sovrappongano al mio lavoro, vi prego di non invitarmi, convocarmi, chiedermi o pregarmi di fare cose a supporto del lavoro degli altri. Noi zecche, sapete, di fronte all’evidenza alla fine rinsaviamo”.